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Il dibattito non solo economico, ma sociologico e filosofico-antropologico contemporaneo si sta incentrando su una tematica non del tutto nuova, ma che presenta i tratti dell’inquietante. Gran parte della nostra vita è oggi dominata dal trading informativo, cioè dallo scambio, dall’interpolazione e dalla diffusione di dati digitalizzati. Ciò avviene consapevolmente e inconsapevolmente, ma soprattutto delinea una nuova forma di capitalismo detto “capitalismo della sorveglianza” nel quale ciò che si vende non sono più merci o gadgets slegati dal bisogno e promossi da un marketing tradizionale, bensì sono le conoscenze, i dati personali (i cosiddetti Big Data) e, in gran parte, la libertà soggettiva. Il “vedere” e il “sapere” sono da sempre gli strumenti immunitari con i quali l’individuo controlla il mondo esterno e quello interno per costruire un’identità stabile e spendibile nella società: la pulsione a “vedere tutto” e a “sapere tutto” con tutto il suo annesso di desideri, godimenti, frustrazioni caratterizza così tanto l’uomo da far dire ad Aristotele che la molla della filosofia è la curiosità. Più vedo e so, maggiore è la mia padronanza sull’ignoto e sul “fuori” e più forte risulta il mio “io”: io so “dove” sono e “con-chi” sono, protetto dalla mia bolla digitale e dai miei account che operano e vivono al posto mio, in quella che Žižek definisce “interpassività”. Ma ci sono degli effetti di ritorno, dei rebounds: nel maneggiare digitalmente l’informazione ci si espone giocoforza ad espropri sistematici della conoscenza e del sentimento con il conseguente utilizzo di dati estrapolati macchinicamente per mappare letteralmente “chi veramente siamo”: e ciò non a fini di scienza, ma per inaugurare un nuovo tipo di trading, l’info-mercato. Come ogni mercato, questo tende a fuoriuscire il più possibile dalle regolamentazioni esistenti, confidando sul suo carattere innovativo e rivoluzionario. Siamo così innanzi a una doppia alienazione che interessa il soggetto: 1) questi è ormai completamente assorbito dal grande Altro dell’infosfera, per cui cerca il proprio sé sulla rete e sui social in un processo di apparente autocoscienza che però viene gestito dai grandi trader del mercato digitale; 2) nello stesso momento in cui cerchiamo di ritagliarci un’identità nella sempre più ampia comunità dei cyber-utenti, ci esponiamo agli algoritmi macchinici del sistema o “dei” sistemi che traggono notizie sul nostro corpo, sui nostri spostamenti fisici, sulle regolarità comportamentali le quali a loro volta possono essere indice di un desiderio, magari inconscio, oppure di una certa propensione o volizione. Il breve testo di Emiliano Bazzanella riassume i tratti di questo “panoptismo “ contemporaneo, ma disamina soprattutto i risvolti soggettivi e in termini di libertà di questa nuova demarché del capitalismo. Probabilmente non esistono dei “grandi e occulti signori” dell’infosfera, ma tutti partecipiamo ad un processo epocale e collettivo donde deriva un soggetto assoggettato, alienato e inconsapevolmente asservito da un “macchinismo” che ormai ha sopravanzato l’uomo relegandolo al ruolo di instrumentum.
Il neo-panoptismo
La psicosi generalizzata quale rischio ultimo della modernità, ossia il fatto di vivere in un mondo fittizio sempre più distante dalla realtà, si riscontra anche nell’eccesso paranoico di quella che gli psichiatri definiscono “scoptofilia” o, come dice Lacan, “pulsione scopica”, il desiderio inappagabile di volere “vedere tutto”. Obiettivamente la rete con le sue mirabolanti tecniche di imaging – GoogleEarth, GoogleMap, YouTube, Instagram, etc. - sembra accondiscendere a questo desiderio, estremizzandolo. Quando parliamo di “vedere tutto” inoltre non possiamo esimerci da un riferimento al cosiddetto Panopticon, progetto architettonico ideato nel 1791 dal filosofo “utilitarista” Jeremy Bentham. Non è tanto in gioco l’idea di un’ “onnivisione” propriamente detta, ma, nelle intenzioni dell’autore, il progetto di rendere architettonicamente più agevole possibile il controllo dei detenuti in regime carcerario, aumentando contemporaneamente la sicurezza delle guardie e razionalizzando il loro numero e il loro lavoro. È per tale ragione che Foucault vede in questo progetto benthamiano il paradigma di un dispositivo di senso “epocale”, in cui il potere non è più quello sovrano, mono-centrico e gerarchico dell’età classica, ma un potere diffuso, capillare, disciplinare e sovente auto-riflessivo. Si passa cioè dall’epoca delle grandi monarchie e da un tipo di potere sovrano apparentemente eccessivo ad un’epoca disciplinare in cui il controllo delle condotte individuali - dalla scuola al collegio, dal servizio militare all’organizzazione delle fabbriche - è finalizzato a un’ottimizzazione della produttività economica. Ha inizio insomma quell’economicizzazione dell’esistenza di cui la biopolitica è appena uno degli elementi sintomatici e forse l’apice di un processo molto più profondo ed antico. Se è vero infatti che il βίος è da sempre al centro della communitas, basti pensare al significato arcaico della circoncisione o delle innumerevoli pratiche di ornamento degli orifizi, certamente il suo inserimento nell’ambito di un’economia astratta che capitalizza ogni aspetto della vita sociale s’immette in una dimensione meta-rituale che abbiamo visto essere tipica della modernità. Nel desiderio dell’ “onnivisione” si concretizza la cosiddetta età della “sicurezza”, dove sono in gioco soprattutto la necessità di una “padronanza” e la conseguente predisposizione di sempre nuove vie di fuga: “è Bentham ad operare il passo definitivo: ‘che cosa significa libertà? Sicurezza è la benedizione politica che ho in mente: sicurezza dai malfattori da un lato, dagli strumenti del governo dall’altro’. Già qui l’immunizzazione della libertà appare definitivamente attuata secondo la duplice direzione della difesa attraverso lo Stato e nei suoi medesimi confronti. (…) Il punto di sutura tra espressione della libertà e ciò che dal suo interno la nega – si potrebbe dire, tra esposizione ed imposizione – è costituito proprio dall’esigenza assicurativa: è questa a richiedere quell’apparato di leggi che, pur non producendo direttamente libertà, ne costituisce, tuttavia, il rovescio necessario: ‘dove non c’è coercizione, non c’è neanche sicurezza’” (Esposito, 2004, p. 74).
Il Panopticon in quanto “macchina rassicurante” dovrebbe garantire la serenità dell’individuo compendiando il fattore coercitivo con momenti di auto-controllo e auto-disciplina, in grado di ovviare agli eventuali eccessi del controllo “poliziesco”. Si tratta in altre parole di disinnescare l’incontro traumatico tra il rappresentante dello Stato – la guardia carceraria – e il simbolo sociale del “male” - il detenuto - attraverso un gioco paradossale tra incontro e non-incontro. Per ottenere in maniera coordinata e omogenea questo doppio movimento, Bentham incentra la sua attenzione soprattutto sul registro della visibilità. Lo “sguardo” quindi non solo “cattura” l’oggetto che non è disponibile alla manipolazione, ma la sua funzione primaria diviene paradossalmente quella di costituire una “presa di distanza”, un differire che crea un “frammezzo”, una specie di intercapedine o intervallo securizzante. L’occhio controlla, “immunizza” ovvero si rapporta all’Altro, standosene ben lontano, in una zona di sicurezza che a sua volta “rassicura a distanza”; contemporaneamente, grazie alla particolare conformazione fisiologica, l’occhio tende a vedere tutto, a “onni-vedere” e si illude pertanto d’avere ogni cosa sotto controllo. Bentham cerca di incrementare la sicurezza delle guardie attraverso un incremento della distanza, per evitare ogni rischio derivante da un contatto troppo diretto con i detenuti e un eccesso da parte del potere repressivo. E per ottimizzare questo processo e per economizzare le risorse, dacché sarebbero necessari troppi occhi e troppe ore lavorate per un accesso costante e diretto all’Altro, egli fa ruotare genialmente il suo progetto sull’αυτός, ovvero su un gioco della riflessione. Invero, se il più assiduo ed efficace controllore fosse colui che è soggetto al controllo? Se l’Altro che mi guarda diventasse alla fine immanente al mio sguardo e quando vedo qualcosa non fossi io a vedere ma fosse proprio l’Altro che abita in me stesso?
Ci troviamo di fronte ai classici paradossi lacaniani e, più precisamente, al cosiddetto “stadio dello specchio” che egli teorizza a partire dagli anni Trenta: nella riflessione speculare il bambino scopre una prima forma di identità ma, nello stesso tempo, fa l’esperienza della prima alienazione, cioè di uno sfasamento e di una non corrispondenza tra ciò che è riflesso e quello che egli sente interiormente. Lo specchio, che a questo punto svolge il ruolo di una sorta di protesi dell’identità, si dimostra fallimentare poiché ciò che inscena traumaticamente è un “sé in quanto Altro” un “sé che sta là e che non sono io”. Nel Panopticon l’alterità si articola in una dissimmetria pianificata tra chi controlla - l’Altro che sa e che può vedere tutto - e il controllato il cui unico sapere ipotetico è quello di essere visto: notiamo un gioco di rimando in cui si aprono molteplici incrinature, cosicché è proprio la fenditura, il “taglio” il tema architettonico dominante della struttura benthamiana. Il carceriere non potrà mai osservare contemporaneamente e sinotticamente tutti i detenuti, ma utilitaristicamente conta sul meccanismo dell’autocontrollo per cui la sua funzione diviene puramente simbolica. Di contro, per quanto riguarda il detenuto, si apre un’ulteriore divaricazione poiché egli “sa” di essere visto, ma ciò non può essere sempre vero, cosicché il sapere mitizzato dell’Altro si trasforma in un desiderio trasfigurato simbolicamente, in un “buco”: io credo, ma anche desidero di essere “controllato” dallo sguardo altrui; io mi nascondo ma il mio nascondimento diviene una strana forma di esibizionismo, un “volere” essere-visto.
Assistiamo in tal modo al paradosso panoptico: l’onnivisione lungi dall’ottenere il consolidamento dell’αυτός, si radica su un “non vedere tutto”, cioè viene connotata dal negativo e dall’alterità. La sicurezza deriva da un buco di sicurezza; l’auto-controllo è sempre dell’Altro! La costruzione del carcere - una struttura chiusa, poligonale, semi-circolare, con finestre leibniziane, ossia che aprono sul “fuori” ma non consentendone la “visione” - può essere assimilata ad una costruzione di senso, ovvero alla ricerca di un sistema identitario in cui proprio lo sfasamento dell’identità viene utilizzato per un incremento del potere e della padronanza.
Questo meccanismo, in apparenza complesso e barocco, descrive tuttavia molto bene ciò che avviene nell’ambito di internet. Lo sappiamo: attraverso Google, FB e i vari cookies, noi siamo continuamente geo-localizzati, “profilati” per quanto riguarda i nostri desideri, le nostre scelte e i nostri immaginari. Di primo acchito potremmo dire che proprio questo sistema in apparenza impersonale incarna l’ideale di un allargamento progressivo dello spazio famigliare e identitario, poiché io finisco per incontrare continuamente i miei amici e i miei desideri oggettivati nella pubblicità di prodotti commerciabili e disponibili “per me”. Con la rete ci illudiamo di accedere ad ogni tipo di conoscenza, confermando uno psicotico allargamento del nostro “Io” ed omogeneizzando il mondo che ci circonda: posso vedere e conoscere solo ciò che desidero vedere e conoscere. Questa ricerca spasmodica dell’identico e delle nostre proiezioni narcisistiche crea però un effetto collaterale, non proprio indifferente, che è l’invenzione dell’alterità: “la paranoia è la credenza in un ‘Altro dell’Altro’, in un Altro che si cela dietro l’Altro della realtà sociale e governa (quelli che ci appaiono come) gli effetti imprevisti della vita sociale, garantendosene in tal modo la consistenza. Questa posizione paranoica è stata ulteriormente potenziata dalla progressiva digitalizzazione della vita quotidiana: una volta che la nostra vita (sociale) si è completamente esteriorizzata materializzandosi nel grande Altro della rete informatica globale, è facile immaginare un malvagio programmatore che cancelli la nostra identità digitale e ci privi così dell’esistenza sociale, cioè ci trasformi in non-persone” (Žižek, 2014, p. 201). Più digitalizzato e manipolabile appare il mondo, maggiormente esso è tracciabile e diviene insicuro; più mi illudo di controllare l’informazione, più mi rendo consapevole dell’impossibilità di un governo esaustivo, dovendo così istituire l’esistenza di un Altro fantasmatico che si nasconde dietro ad ogni bit; più cerco di rafforzare la mia “persona” sociale nell’esibizione dei miei comportamenti più privati in una sorta di narrazione autobiografica “per immagini” disponibile a tutti, più mi espongo ad un processo di depersonalizzazione che non è solo reale ed effettivo, ma invade il livello dell’immaginario soggettivo, creando innumerevoli fantasmi nichilistici capaci di interdirmi, bannarmi e cancellarmi, in uno strano riflusso che dal piano puramente virtuale trapassa inesorabilmente nella realtà: chi è “bannato” su FB viene necessariamente “bannato” nella realtà oggettiva e, quindi, non esiste più socialmente e di fatto “muore”.